29 marzo, 2009

Hotel Miramare

"Meglio aver roba che soldi", si usa dire in certe zone nei dintorni di Firenze dove una volta era tutta campagna. Non potrei essere meno d'accordo. L'ho pensato più che mai in questi giorni in cui l'influenza mi ha costretto a stare in casa, e di conseguenza ad affrontare quello che c'è dentro casa: la Roba. Tutto quello a cui vorresti dare un ordine ma non ci riesci, perché la Roba vive di vita propria ed è refrattaria alle classificazioni. Presto diventa una lotta aperta: se non riesco a ordinare inizio a buttare. Lì inizio a sentirmi meglio, più leggera, più libera ad ogni sacco riempito. E mi torna il vecchio sogno: abitare in albergo. Tutto quello che serve starebbe dentro uno zaino, il resto - libri, dischi, vestiti, diari, fotografie - nella memoria.
ps: l'hotel Miramare della foto non è al mare ma in una città del Nord Est. E non si chiama Miramare, che è invece il nome del viale in cui si trova.

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16 Comments:

Anonymous artemisia said...

Panico.
Horror vacui.

Queste - sempre - le prime sensazioni che mi colgono entrando in una stanza d'albergo.
Immediatamente, comincia il processo di riempimento, il farsi il guscio: allineare le mie cose in bagno, i miei libri sul comodino, i miei vestiti nell'armadio, anche se è solo per una notte.
Non amo le cose di per sè. Faccio razzie frequenti, nelle quali butto sacchi di roba, vecchie lettere, anche libri che non mi sono piaciuti. Non è questo.
È il bisogno, ovunque io vada, di crearmi una corazza di oggetti amici, un ambiente mio, che mi protegga dal vuoto incombente. Una volta ho vissuto in un albergo per un anno intero. È andata a finire che non facevo più entrare la donna delle pulizie: era diventata casa mia, e ho sofferto lasciandolo, come ogni volta che ho cambiato casa.

Chiamatemi pure Mazzarò.

9:31 PM, marzo 29, 2009  
Blogger lophelia said...

Mazzarò: forse se avessi traslocato spesso, o se viaggiassi spesso per lavoro, farei anch'io così.
Per me le stanze di albergo sono associate a momenti di cambiamento in cui volevo star sola, senza nessuno intorno, per fare chiarezza su situazioni interiori ingarbugliate.
La stanza d'albergo nella sua neutralità è l'ideale per questo.
A volte mi prende l'impulso folle di passare una notte in un qualche albergo della mia città, come se dormire in un altro luogo di per sé potesse essere - come dire? - palingenetico.

9:50 PM, marzo 29, 2009  
Blogger CICCILLO said...

adoro gli alberghi, proprio l'altra sera dicevo a qualcuno che quando potrò farlo andrò a Parigi ad abitare in albergo ed aspettare la fine.
almeno la donna delle pulizie una volta al giorno entra per vedere se sei ancora vivo.
quanto alla Roba al diavolo... per chi è interessato ne ho già da vendere!

12:26 PM, marzo 30, 2009  
Blogger Jos said...

Il Malinteso
di Albert Camus

Il malinteso, la sua pièce andata in scena per la prima volta nel 1944, Parigi, al Théòtre des Mathurins.

... E' uno spettacolo che rispetta ed esalta la crudeltà pietosa dell'autore nei confronti dell'Uomo, costantemente in lotta con il concetto di Dio; la sua capacità di rischiare oltre il pensabile per afferrare un'utopia di salute e libertà; il coraggio di sfidare l'assenza possibile del trascendente in nome di un odio uguale all'amore. Amore assoluto.

La trama: una Madre e una Figlia, Marta, uccidono a ripetizione gli avventori ricchi e soli della pensioncina che gestiscono in un piccolo paese. Mettono da parte il denaro necessario per cambiare orizzonte. La ragazza aspira a vivere in un Sud assolato che la risveglierebbe alla vita e ai sensi, e a un certo punto, accecata dalla voluttà dell'obiettivo, non percepisce chi sia l'ennesima vittima del sistematico uccidere di cui si macchia: il fratello Jan, riemerso dal tempo dopo troppi anni di assenza.

http://www.sipario.it/recensioneilmalinteso.htm

12:49 PM, marzo 30, 2009  
Blogger Jos said...

Il Malinteso di Albert Camus:
una lettura analitica.

(pubblicato in Informazione in psicologia, psicoterapia, psichiatria, n. 27, Roma, 1996, pp.18-21)

Lidia Procesi*

Il Malinteso di Albert Camus esprime uno psicodramma possibile della castrazione femminile. Rispettando lo schema corporeo della donna e l'investimento affettivo sulla sua fecondità, propongo un modello di castrazione come sterilizzazione, svuotamento, asportazione di utero e ovaie. Senza matrice, la donna si trasforma in una cavità morta come un sepolcro.
Questa la storia. Un albergo anonimo in un angolo imprecisato e tetro dell'Europa centrale: le proprietarie, la Madre e sua figlia Marta sopravvivono uccidendo di tanto in tanto qualche raro cliente ricco, per depredarlo. Il candidato ideale deve essere un uomo solo, uno straniero del tutto sconosciuto e di passaggio, che possa sparire senza lasciare traccia. E' una morte dolce, il benvenuto delle albergatrici: il cliente viene narcotizzato e gettato in una chiusa, dove affogherà, riemergendo chissà quando, insieme ad altri cadaveri sfigurati dalla putrefazione. Omicidio dopo omicidio, le due donne stanno accumulando il denaro utile per realizzare il sogno di ritirarsi a vivere in un paese tropicale, dove il sole cancellerà ogni traccia del passato. All'origine della catena luttuosa c'è forse un Padre, ma questi è morto chi sa quando, né più interessa il come o il perché. L'ultimo predestinato, Jan, è il figlio e fratello dimenticato, tornato ricco dopo vent'anni, per renderle felici. Con lui c'è la moglie Maria, che è amore, è vita, è felicità. Jan è infervorato nella sua missione familiare, vuole presentarsi da solo, essere riconosciuto e accolto a braccia aperte. Maria si piega angosciata al suo slancio generoso, il cuore la avverte della tragedia. C'è infine un Vecchio domestico, che tace sempre e conosce la verità, sa chi è Jan ma lo rivela alle donne solo a fatto compiuto, con indifferente perfidia. Colta da un'inaspettata dolcezza, la Madre si getta nel fiume, per ricongiungersi col figlio ritrovato. Marta scopre l'inutilità del sacrificio della sua giovinezza all'egoismo insaziabile di sua Madre, senza il cui amore tutta la sua strategia criminale è fallita. Si uccide. A Maria non resta che l'orrore del malinteso: la sua felicità è stata annientata per equivoco. Trionfa solo il Vecchio, il cui sadismo finale consacra la tragedia della follia alla banalità cieca del male.
Nel Malinteso la donna è la vita, come Maria, e la donna è la morte: Madre-Marta. Questa dicotomia è l'espressione assoluta dell'esperienza della castrazione femminile. Gli stereotipi del narcisismo femminile - Madri, Vestali, Amazzoni, Prostitute - si possono ridurre a due estremi generici: la Vita o la Morte. La psiche femminile non è responsabile delle sue creature, che siano viventi o cadaveri. Una tale impossibilità di individuazione genitale condanna la donna all'impossibilità di sublimazioni, al blocco della creatività. La sterilizza. Questo modello centra la specificità femminile: prima di essere nutrice, la donna è matrice, dotata di una creatività pausata, nascosta, trasformatrice. E' un Malinteso paradossale immaginare che al corpo femminile castrato corrisponda una donna maschio mancato. Alla donna castrata è stata invece negata la possibilità di identificarsi con la propria fecondità: pensarsi come un corpo che forma nuovi corpi all'esistenza. Questo intreccio con la costruzione del corpo smaschera l'ombra del narcisisimo femminile: il fantasma della distruzione del corpo, ossia la morte. Le protagoniste del Malinteso sono dedite all'omicidio e gli altri sono generiche impersonazioni della mancanza di identità. La Madre non ha un nome proprio, è una funzione. Così sono Jan e Marta: figlio e figlia in generale. L' elemento estraneo è Maria, destinata inevitabilmente alla sconfitta e all'espulsione dal perverso nodo incestuoso che stritola gli altri tre. La controfigura del Padre è altrettanto indefinita, il Vecchio taciturno, umbratile e insignificante: il responsabile consapevole del malinteso.
I personaggi costellano figure composite e tentacolari, che abbozzano un maschile e un femminile abortiti. I veri protagonisti sono la Madre e il Vecchio. La Madre è una giustapposizione mostruosa di due parti femminili, incarnate dalla figlia e dalla nuora: ha sessanta anni mentre le giovani ne hanno trenta: sono le sue due metà. Solo numerose scissioni consentono di assegnare a ciascuna il proprio ruolo di castrazione. Maria, la scelta dell'amore oggettuale, deve fallire. Marta è l'autoerotismo aggrappato alla Madre. Madre e figlia sono proprietarie simbiotiche del corpo castrato, l'albergo accogliente come un avello, e per via della strenua autosufficienza che dà loro forza, consentono l'accesso solo a uomini che possano depredare e uccidere. Il maschio è un oggetto masturbatorio, da manipolare e gettare via. Nella prima scena, la Madre e Marta attendono il nuovo cliente, con l'ansia sorpresa di chi non sperava più in un simile fortunato imprevisto. Il loro dialogo è da complici: una complicità nell'omicidio venata di allusioni amorose ambigue. Uccidere è il loro modo di spassarsela, progettando, pregustando e godendo il crimine con passione incomparabilmente più ardente e tenace dei banali passatempi erotici delle coetanee di Marta. La Madre è più reticente, ma solo perché si sente un po’ troppo anziana per queste eccitanti imprese. Marta è focosa, avida. Formano un unico corpo, una sola Madre-Marta o una Marta-Madre. La Morte.
La vittima deve essere uomo e ricco. Per una personalità del tipo Madre-Marta il maschio è comunque il ricco da depredare. La sua ricchezza, fantastica Marta, le renderà finalmente libere: libere dall'albergo-carcere, libere da una terra gelida e invernale, libere di trasferirsi a godere il caldo dei paesi del Sud e lasciarsi bagnare dalle potenti onde di quei mari. La fantasia erotica castratoria è semplicissima: il maschio è effettivamente "ricco", possiede l'elemento magico che rende feconda la femmina, dimostrandole la sua trasformazione in donna. Bisogna dunque strappargli lo sperma, per potersi godere in perfetta autonomia la propria corporeità: conquistarsi in un abbraccio solitario, i lidi caldissimi del Sud, l'inquietante zona tropicale del corpo, dove si infrangono i flutti di un orgasmo allucinato. Il ventre svuotato della donna castrata castra l'uomo. Il maschio è predestinato a convincersi che la sua ricchezza, lo sperma, il suo desiderio di paternità, creatività, non è che la grottesca illusione di sopravvivenza, grazie a figli reali o simbolici. La pretesa di provare a se stesso la propria fecondità, incontrando la donna, non è altro che paura della morte rinviata: è solo un peso a cui comunque, ognuno un giorno dovrà rinunciare definitivamente. Tanto vale ringraziare la mano femminile che con dolcezza studiata accelererà i tempi, risparmiando affanni e delusioni. Madre-Marta-Morte è una femminilità benevola, che con questo anticipo che sottrae la vita, risparmia alle sue creature il dolore del distacco, del trapasso. Grazie al sacrificio della fecondità, nessun nuovo corpo verrà al mondo: una buona provvidenza femminile pensa a come risparmiare ai figli il peso della vita, guidandoli sollecita alla dimora estrema. La castrazione è l'atto d'amore che inghiotte in un corpo femminile svuotato e tombale la ricchezza della vittima maschile, smascherandone le inutili illusioni di creatività. Tanto è amorosa e provvida Madre-Marta, che sulla scena la vediamo stanca, sfinita da troppa sollecitudine:"Uccidere è talmente faticoso". E' un compito immane l'identificazione definitiva della vita con la morte e della morte con la vita.
Anche la figlia, Marta-Madre, è stanca: sente il peso della sua anima e sa che il sole tropicale le svuoterà finalmente il corpo dagli ultimi residui di passione. Marta-Madre esprime così il sogno del suo complesso:" Madre, è vero che laggiù la sabbia delle spiagge arde e lascia piaghe ai piedi? ... il sole corrode fino all'anima e rende i corpi splendenti ma svuotati all'interno". Il peso dell'anima è tutto il peso della genitalità rifiutata; il sogno è sbarazzarsi dell'ingombrante presenza di utero e ovaie, che intasano il corpo. Marta e la Madre sono incistate l'una nell'altra, in una confusione di genitali sterili, come il loro abbraccio ermafrodita. L'anima-genitalità di Marta-Madre è la loro "dimora": che sia pure l'albergo, "misera casa di mattoni ammobiliata di ricordi", è comunque quella corporeità confusa, in cui Marta è imprigionata, da cui si aspetta di essere liberata grazie al sacrificio del maschio vittima. Un grave malinteso, per il salvatore. Il corpo femminile autosufficiente è solo quello in cui sia stato definitivamente creato il vuoto, un vuoto che risucchia nel nulla lo sperma. E tuttavia c'è anche un maschile omicida, che trionfa su tutto. Madre-Marta è autosufficiente perché può contare sul misterioso domestico, il Vecchio che sa tacere di un silenzio cimiteriale. Maria e Jan sono i soli esseri umani reali: ricchi e bisognosi. Ricchi perché amano e bisognosi perché hanno rinunciato all'illusione e all'allucinazione di potersi amare da sé, in perfetta solitudine.
La seconda scena del secondo atto sintetizza in poche battute l'essenza del ruolo maschile, in un dramma masturbatorio sterilizzante. Jan è stato accompagnato da Marta nella sua camera, dove gli verrà offerto un tè mortifero. Il freddo e la solitudine sono assoluti. Un interno così ostile può rappresentare adeguatamente il contraccolpo sull'uomo, dell'incontro con una donna svuotata della sua genitalità. Quella stanza è per Jan l'equivalente di Madre- Marta. L'uomo si interroga sulla sua angoscia: forse la verità è la solitudine eterna, il silenzio assoluto. L'assenza totale dell'Altro. "Ecco di nuovo la mia vecchia angoscia, qui, nel cavo del mio corpo, come una cattiva ferita che ogni movimento irrita. Conosco il suo nome. E' la paura della solitudine eterna, il timore che la risposta non venga." Infatti al suono del campanello, con cui Jan cerca una presenza, compare il Vecchio e ne segue un dialogo surreale: Jan si scusa, voleva solo vedere se ci fosse ancora qualcuno. Non sa di avere evocato la personificazione del suo incubo. Il Vecchio tace, il suo mutismo è l'essenza del suo servizio. Il blocco Madre-Marta pretende una complicità assoluta. La castrazione del maschio è espressa come lingua tagliata.
Se Jan corrisponde al vissuto della donna-figlia, che come Marta uccide ma come Maria è la vedova dell'ucciso, la realtà del Vecchio è il ruolo del Marito-Padre assassino, compagno della Madre assassina: scomparso come tale, è l'unico che, alla fine, campeggerà sulla scena, dopo aver eliminato gli altri.
L'identità maschile è scomparsa e al suo posto agisce una figura tanto scissa quanto è un ammasso confuso il complesso proteiforme Madre-Marta. L'uomo è solo lo strumento docile e servile del mostro. Strumento di vita e cameriere ubbidiente della Morte. Il Vecchio tace troppo, copre; il figlio parla troppo, si scopre, otterrà ciò che gli spetta. Il Vecchio lo riconosce subito e senza darne cenno se ne va.
Si incontrano il Vecchio e il figlio. L'uno sa la verità e non ha sentimenti, l'altro ignora la verità e si lascia sopraffare dal sentimento. L'uno è servo perché sa tutto, l'altro è servo perché ignora tutto. Il servo di Madre-Marta è l'ombra del figlio servizievole, pronto a dare liberamente la sua ricchezza, immolandola: l'eccesso di servizio compensa in entrambi i ruoli la realtà del disprezzo totale a cui è condannata l'identitità feconda. Marta-Madre strappa la vita al maschio per potersi godere il corpo svuotato: lasciarlo rinsecchire da un sole arido, piagare dalla sabbia sterile. Il femminile castrato non si può innaffiare, come un terreno carico di frutta. La ricchezza, lo sperma ha valore solo se possa essere distrutto, non deve fruttificare.
Il Vecchio è la verità della strategia familiare, perché è la verità del malinteso. Per questa verità egli è un vicario di Dio. Quando tutto è compiuto e smascherato, Marta si congeda da Maria con queste parole: "Preghi Dio che la renda simile alla pietra. E' la felicità che riserva a se stesso, l'unica, la vera felicità. Faccia come Lui, si renda sorda a ogni grido, raggiunga la pietra finché ne è in tempo". Anche l'odio sarebbe un inutile simulacro di sensatezza e verità. Marta se ne va a morire, dopo aver consegnato a Maria la sua verità. Sulla scena Maria urla: "Oh! Dio mio! Non posso vivere in questo deserto! Parlerò a Voi e saprò trovare le parole. Perché è a Voi che mi affido. Abbiate pietà di me. Signore, ascoltatemi, stendetemi la Vostra mano". Qui compare il Vecchio e questo è il dialogo emblematico:
Il Vecchio (con voce netta e ferma) - "Mi ha chiamato?"
Maria (voltandosi verso di lui) - Oh! Non so! Mi aiuti, perché ho bisogno di essere aiutata. Abbia pietà e acconsenta di aiutarmi!
Il Vecchio (con la stessa voce) - No!
No è l'ultimo suono sul palcoscenico. Indipendentemente dalla fede, dall'agnosticismo, dalla tolleranza o dall'ateismo, Dio è evocato come l'esperienza dell'Altro, che dà senso al parlare con l'ascolto: l'archetipo del Senso. La sua voce è neutra: né buona né cattiva, né tremenda né, tantomeno, numinosa e Dio dice solo di No, in un perfetto incontro col niente.

* Lidia Procesi è docente di Storia della Filosofia Moderna (Università degli Studi di Roma Tre). E' autrice di studi su religione, mito e autocoscienza, tra cui La genesi della coscienza nella filosofia della mitologia di Schelling (Mursia, Milano 1990). E' psicologo analista, membro dell'AIPA. Ha pubblicato saggi di metapsicologia junghiana sul mito come linguaggio della sofferenza: Un motivo onirico religioso e la sua interpretazione, "Rivista di Psicologia Analitica”, 43, 1991, La funzione terapeutica del mito, "Informazione psicologia, psicoterapia psichiatria", 19, 1993; e sul doppio legame: L'abuso della mente, "Rivista di Psicologia Analitica", 42,1990, Il mito del doppio vincolo, "Informazione psicologia, psicoterapia psichiatria", 20, 1994. Con il saggio: Anoressia, omosessualità, castrazione: il caso Ellen West, "Rivista di Psicologia Analitica", 51, 1995 ha presentato il problema oggetto di questo libro.

12:53 PM, marzo 30, 2009  
Blogger lophelia said...

francesco: di ottimo umore oggi, eh?

jos: uhmmmm...cosa vorresti dire?

1:09 PM, marzo 30, 2009  
Anonymous artemisia said...

me lo stavo domandando anch'io

3:24 PM, marzo 30, 2009  
Blogger Jos said...

cosa voglio dire io? no, nulla.
volevo solo tornare sul tema degli alberghi visto con gli occhi e la scrittura di uno dei miei autori preferiti...

Jos

6:23 PM, marzo 30, 2009  
Anonymous artemisia said...

Ho capito Lophelia: per te la stanza d'albergo è quella che per me è la baita norvegese. E sì, in effetti, lì non c'è bisogno di portarsi dietro niente.

6:25 PM, marzo 30, 2009  
Blogger lophelia said...

arte: ecco appunto

jos: ah, allora grazie. Confesso che avevo la coscienza sporca, della serie "chi di psicoanalisi ferisce, di psicoanalisi perisce", e già ero pronta a psicoanalizzare la psicoanalista (sembra più freudiana che junghiana a dire il vero) temendo insinuazioni proiettive delle suesposte istanze mie e di Artemisia sulle inquietanti protagoniste della pièce.
E' vero che il tema dell'albergo si è sempre prestato alle varie declinazioni da film dell'orrore, non ci avevo pensato tanto per me rappresenta l'opposto, l'oasi di pace e rinascita.
Anni fa mi iscrissi ad un workshop fotografico estivo. Nello scegliere l'alloggio l'alternativa era tra l'ostello con camere condivise e il seminario vescovile con le sue ascetiche stanze, non ebbi il minimo dubbio.

8:00 PM, marzo 30, 2009  
Blogger lophelia said...

e la baita norvegese sì, freddo a parte credo che mi piacerebbe.

8:02 PM, marzo 30, 2009  
Anonymous artemisia said...

Anch'io avevo già iniziato a trasporre in un'analisi appunto freudiana tutta la pièce, tipo: mia figlia Maria come Madre e io come Marta, oppure Lophelia come Marta e il fratello Jan come Jos, e le varie combinazioni...

chi di analisi ferisce, giusto

e invece non si trattava di capire ma semplicemente di comprendere

:D

PS: Un giorno, Lophelia, ti parlerò di un mio progetto che comprende una casa danese sulla spiaggia.

9:07 PM, marzo 30, 2009  
Blogger lophelia said...

bene, prenoto sin d'ora una dependance:)

10:57 PM, marzo 30, 2009  
Blogger CICCILLO said...

a proposito di Camus, mi ha colpito l'altra sera guardando lo speciale di Fazio dedicato a Roberto Saviano quando a un certo punto lui, raccontando di quando insieme a Salman Rushdie è stato a ritirare non so quale premio all'Accademia del Nobel, ha pronunciato proprio questo nome insieme a quello di molti altri che avevano ricevuto il Nobel proprio in quella sala.
era un po' imbarazzato mentre lo diceva, come se facesse uno sforzo nel cercare di pronunciare giusta la "u" francese.
insomma, la faccia e l'inceppamento di quelli che si vergognano a parlare un'altra lingua, una cosa che prima o poi è capitata a tutti e che per me tradisce un disagio e un'insicurezza profonda.
secondo me Saviano, con tutto il rispetto, è come se si fosse messo in una storia più grande di lui.
quell'inceppamento deferente, non proprio un lapsus freudiano ma quasi, mi ha svelato di questa storia, che finora non avevo più di tanto considerato, più di tante parole, scritte e dette in quella trasmissione.

11:54 PM, marzo 30, 2009  
Blogger lophelia said...

be' ma in senso buono, no? Per quello che ha da dire non mi sembra che un lapsus di questo genere lo sminuisca, correggimi se sbaglio.

12:44 AM, marzo 31, 2009  
Blogger CICCILLO said...

non c'entra con le cose che dice.
c'entra con lui in quanto personaggio pubblico, col suo esporsi, col suo disagio a stare nella parte che lui stesso si è scelto.
e forse con una vicinanza, in senso culturale intendo non certo morale, con quelli che sono i suoi nemici.
diciamo che mi ha fatto un po' pena e un po' tenerezza.

12:24 PM, marzo 31, 2009  

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