29 marzo, 2009

Gli occhi, la bocca

Proseguendo il discorso, il gesto di liberarsi di tutte le proprietà materiali è stato estremizzato e reso opera d'arte da Michael Landy con la sua performance Break Down (2001, vista di recente anche a Firenze). Giocattoli, automobile, documenti, opere d'arte, chiavi di casa e altro, tutti i suoi settemila e passa averi sono stati catalogati, divisi per categorie e fisicamente distrutti, dentro un ex-centro commerciale.
Ma la cosa più interessante è quello che è successo dopo. Sembra che Landy dopo un po' abbia ricominciato prendendo in mano matita e carta bianca, e dopo aver disegnato un po' di erbette in stile inventario botanico sia passato a ritrarre da vicino i volti prima di parenti, poi di amici, artisti e altre persone. Lui e il soggetto, soli a pochi centimetri di distanza, nello studio completamente vuoto.
A me sembra che questo dica qualcosa sull'importanza del volto come oggetto di studio e di interesse. Ma pare che in Italia la pensino diversamente perché nelle arti contemporanee si rappresenta tutto tranne il volto (qui una National Portrait Gallery sarebbe un'eresia). C'è una sorta di rimozione, di fobia del guardare l'altro in faccia, del guardare se stessi troppo da vicino. Le tracce dell'identità si cercano ovunque (nei codici dell'abbigliamento, nell'ambiente di lavoro sia esso un ufficio o la cabina di un Tir) ma non nella faccia. Come se fosse ritenuto un compito privo di interesse, già assolto dai documenti di riconoscimento.
Per indagare l'uomo la maggior parte dei fotografi si concentra sulla dimensione di gruppo o di comunità, o magari sulla ripresa estemporanea in strada, fermandosi alla visione grandangolare.
Come se il volto non avesse niente da dire. E invece il volto è un luogo dove succedono un sacco di cose, lo sapevano bene registi come Dreyer, Bergman e Kieslowski (per non parlare di Ejsenstejn e dell'Occhio della Madre).

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11 Comments:

Blogger Jos said...

Nome e viso

Patrizia Calefato

Pornografie: il nome proprio e l’abiezione del volto

Testo letto a Urbino, Centro internazionale di semiotica e di linguistica, 19-21 luglio 2004, Convegno “Segni particolari. L'immagine del viso, l'immaginario del nome proprio”

Questo testo pensa al nome proprio dissimulato, rifiutato, sganciato, deriso, invocato, maledetto, dal volto che ne porterebbe l’effigie. Pensa al volto che si vela, e si cela, abiura e si abietta. Qui guardo allo spazio in cui nome e volto si incastrano, l’uno incidendosi, “marchiandosi”, nella negazione dell’altro o viceversa nella sua enfasi.

Luogo particolare del corpo, il viso: luogo dello sguardo, luogo dell’esporsi e del ritrarsi, luogo del tempo che si scrive sugli angoli della pelle. “Luogo” specialissimo del linguaggio, il nome, in cui convergono paradossi e si edificano poteri; elemento a partire dal quale si snodano millenni di riflessioni filosofico-linguistiche tra convenzionalismo e nominalismo, da Platone, ai filosofi medievali, a Mill, fino alla “svolta linguistica” novecentesca.

Il nome oscilla tra presenza ed evocazione: presenza posticcia, perché chiamare qualcuno, qualche luogo, qualcosa, crea uno schermo; evocazione incerta, perché il nome compone un corpo paradossale, scrive un geroglifico nelle cui tracce è possibile scavare i tratti di un volto. Ed è forse dello statuto errante del nome tuttora efficace metafora quel frammento di Eraclito, in cui il differimento richiama l’istituzione del linguaggio, a proposito del significato duplice ed opposto di un nome come bìos: “vita” e “arco”: “dell’arco, invero, il nome è vita, ma l’opera è morte” (Colli 1980, Eraclito 14 [A8]; 22 B 48 DK). Nome comune, questo di bìos, trattato però come nome proprio nella forza designativa e insieme narrativa che contiene, nella forza del mito dove i nomi comuni sono tutti nomi propri e in quello del dissidio che il nome proprio scatena. Chiamare, e de-nominare; separarsi dall’altro, e tentare di prenderlo; disperderlo nel molteplice del linguaggio, e condurlo a sé nella forza del riconoscimento.

“I nomi di persona, il cui dire significa un volto...”: l’espressione di Lévinas, nel suo libro intitolato icasticamente Nomi propri – una serie di vocativi rivolti a chiamare, attendere e rispondere ad altri con la forza dell’obbligo etico cui il nome vincola - reclama da questo nodo del linguaggio un sostegno, un aiuto a parlare: “i nomi propri in mezzo a tutti questi nomi e luoghi comuni [...] non permettono forse di presentire, al di là delle parole in perdizione, la fine di una certa intelligibilità ma l’alba di un’altra?” (Lévinas 1976, p. 4). Cosa finisce? e cosa albeggia a distanza? Quale forza ha il nome per sferrare il suo grido, che in Lévinas ha l’urgenza dell’etica universale, la quale, lui scrive, “non [può] reggersi senza nomi propri” (p. XXI), cioè senza l’obbligo di interpellazione ad altri che il nome esige quando è pronunciato e che mi chiama, dice ancora Lévinas, al comandamento del “Non uccidere”?

Ad altri, diciamo: dunque ben oltre il dominio della designazione “rigida” che regolerebbe nel linguaggio lo statuto del nome proprio come segno dotato di un unico referente; ben oltre il nome autoriale attraverso cui l’opera si consegna al mondo ed al tempo; ben oltre il nome nel suo valore performativo quando è apposto come firma in un pubblico atto; ben oltre il nome-marca che incide la merce istigandola a divenire bene di lusso. Ad altri: il nome è ad altri. Chiama. Vocat: sollecita l’esporsi, il da-vedersi. Il viso. O meglio: quello che altri mi rivolge come da-vedersi: il volto. Non necessariamente “una faccia”: è lo stesso Lévinas a ricordare come il volto possa anche essere una schiena, altri senza nome in una coda di persone durante una visita delle famiglie dei detenuti politici alla Lubyanca di Mosca (il riferimento di Lévinas è qui a Vita e destino di Vassilli Grossman, Lévinas 1984, p. 30). Volto come catacrèsi, lo chiama Judith Butler (2004, p. 162). Perché è il dire del nome che significa un volto, non il suo detto. E il volto, nel suo dire al di là del detto, è la nudità assoluta dell’altro, come direbbe Lévinas, la sua esposizione totale, la sua precarietà che mi parla di vita ai limiti della vita stessa.

E’ un percorso purificante? Cerco nel volto di altri un nome per dire, o meglio per chiamare, la sua “vera” essenza, la sua autenticità, la sua umanità più umana, in modo da restituire al linguaggio la sua innocenza? Non mi sporco forse le mani? Non è quel “da vedersi” (visu) del volto già il frutto di un atto violento, di un’esposizione che congela finanche quella schiena davanti a me in fila all’inferno, proprio nel momento in cui essa viene detta “senza nome”? Non è quel nome prodotto in un movimento che potrebbe chiamarsi abiezione, un processo di espulsione e rigetto di ciò che è innominabile almeno finché rimane ancorato ad un corpo unico – corpo materno, corpo sociale – che si realizza affinché questo corpo possa “purificarsi”? E’ un mediocre film di qualche anno fa – The Face - a raccontarci la storia di due uomini (interpretati da John Travolta e Nicholas Cage) a ciascuno dei quali viene chirurgicamente rifatta la faccia dell’altro e che sono chiamati, obbligati, ad uccidersi: bisogna che l’uno ammazzi l’altro nella faccia di se stesso. Qui non è semplicemente il doppio o la rassomiglianza in questione, ma proprio l’abiezione del mostruoso da togliere di mezzo, e che ha il viso del medesimo nel corpo di altri.

Il “viso” – giochiamo con la pluralità di termini che ci permette la lingua italiana: viso, volto, faccia - è una agglutinazione del “visivo”, è l’immagine che costruisce un segno particolare per lo sguardo, e per quanto si cerchino percorsi salvifici di un “dire al di là”, questa costruzione è vincolata entro le leggi della visibilità in quanto identità, che diventano poi le leggi stesse della nominazione. Viso e nome vivono l’uno nello sguardo come atto del vedere, l’altro nell’enunciazione come atto di parola: in questi ambiti rispettivamente traggono la loro forza evocativa e il loro potere figurativo e raffigurativo, risponda esso a un criterio di rassomiglianza o a un principio di riconoscibilità. E in questo mettono sempre in gioco qualcosa d’altro, spesso irrappresentabile e innominabile.

Nel suo celebre saggio su “Proust e i nomi”, Barthes riconosce come in Proust il campo enunciativo all’interno del quale il nome proprio funziona come un segno sia costituito dalla reminiscenza. Definisce così i poteri del nome a partire da questa che vorrei definire come sua “messa in opera” nel duplice senso di messa in funzione “attoriale” del nome e di realizzazione del programma narrativo, e più completamente sensoriale, sinestetico (“Parma” ha l’odore della violetta) del nome nell’opera di scrittura. Li elenco in breve: potere di essenzializzazione, perché il nome designa un solo referente; potere di citazione, perché proferendo il nome, si evoca a piacimento tutta l’essenza racchiusavi dentro; potere di esplorazione, perché il nome permette di dare la “stura” ai ricordi (Barthes 1953 e 1972, p. 121). Dove finiscono questi poteri, quando il nome si “scrive” sul viso nella dimensione pubblica dell’immagine? In questo caso è il nome a farsi catacrèsi di altri, a chiamare, sì, altri, ma con la violenza del visivo che trafigge l’altro esponendolo, dicendo troppo o troppo poco, in una nudità pornografica dell’immagine che fa da sfondo oscuro e corrotto a quella nudità come principio “umano” di cui ci parla invece Lévinas.

Secondo un certo modo di guardare e di produrre le immagini, queste possono essere il prodotto di un’aggressione, o per meglio dire possono rappresentare ciò che “l’aggressione ha lasciato dietro di sé” (Chow 2004, pp. 25-26), come scrive Rey Chow. Lo shot, lo scatto o lo sparo dal mirino – sia questo quello di una pistola o di una macchina fotografica, sia il click del mouse o il ritmo cinematico di una catena di immagini mentali - in questo caso non farebbe altro che produrre una vittima passiva in mostra. L’immagine è ambigua: in quanto costruzione sociale, essa può essere, come scrive ancora Chow riferendosi all’immagine del “nativo”, una “veduta offensiva che rivela se stessa nell’altro”, può essere il “luogo dell’aggredito” (ib.), cioè il luogo in cui il nome di altri si costruisce sulla base della violenza che su altri si esercita.

Violenza spesso fondata sul narcisismo da cui l’immagine proviene: il volto di Antoinette, protagonista del Grande mare dei Sargassi - la “riscrittura” caraibica elaborata da Jean Rhys sul Jane Eyre di Charlotte Brontë – compare spesso attraverso l’immagine allo specchio; la proiezione narcisistica in questo testo suggerisce come l’identità umana possa essere determinata da una “violenza epistemica”, come la chiama Gay Spivak (1999, p. 127), che agisce nel costruirsi stesso dell’immaginario del nome proprio e dell’immagine del viso. Il marito Rochester rinomina violentemente Antoinette come “Bertha”, lo stesso nome della mostruosa ed abietta Bertha Mason di Jane Eyre (citazione, direbbe Barthes, come del resto quella dello stesso Rochester) e il suo nome proprio risuona a un certo punto come rifratto attraverso specchi distorcenti: “Marionette, Antoinette, Marionetta, Antoinetta” (Rhys 1966, pp. 157, 165). Esplorazione, direbbe ancora Barthes: una nenia in cui il nome deumanizza la donna e la riduce a bambola meccanica. La citazione e l’esplorazione scivolano qui attraverso un nome che nega però l’essenzializzazione, negando che al nome proprio corrisponda un solo referente, anzi negando il referente stesso in un continuo spostamento enunciativo.

“Che cos’è il nostro viso, se non una citazione?” (Barthes 1970, p. 107) si chiedeva Barthes nell’Impero dei segni in una didascalia a commento del viso di un giovane attore giapponese che “citava”, nella sua rassomiglianza, Anthony Perkins, l’attore hollywoodiano. Nella “distanza” - il Giappone per Barthes è il baudelariano “laggiù”, il “la-bas” della differenza di una lingua “strana e straniera” - l’altro è sacrificato alla clonazione. Vengono in mente i volti delle giovani donne orientali che si rifanno le palpebre o il naso per assomigliare alle donne occidentali, donne che abiettano, espellono dal proprio corpo il proprio viso (il proprio nome?) per renderlo immagine “da vedersi”, ammissibile, rassomigliabile. Ma quale Oriente e quale Occidente? Quale uniformità presupposta genera un inesistente ideal-tipo già costruito attraverso le griglie opache della rassomiglianza?

“Ri-farsi un nome”, “salvare la faccia”: i modi di dire la dicono lunga sul ruolo che assumono nella costruzione dell’identità il nome e la faccia - non semplicemente il viso o il volto, ma proprio ciò che compare come immagine del sé, come facies espressiva. Viso e nome non sarebbero in questi casi “segni particolari” di una singolarità irreplicabile, insostituibile, qui, ora, io... Sarebbero piuttosto i segni di una sottrazione. L’immagine del viso, l’immagine come spazio del visivo, in senso forte – del visivo come ciò che è da vedersi – si produrrebbe allora attraverso una proiezione in cui il nome è un segno avvolto nello stupore del linguaggio. Potremmo dirlo con le parole di Marguerite Yourcenar a proposito di Zénon, in L’opera al nero:



Non habet nomen proprium: era di quegli uomini che sino alla fine non cessano di meravigliarsi di avere un nome, come ci si stupisce, passando davanti a uno specchio, di avere un volto, e che sia proprio quel volto (Yourcenar 1951, p. 723).



La proiezione evoca qui lo specchio: lo stupore del rispecchiamento nega al volto un nome, nega il volto stesso, malgrado il “pellegrino e straniero” Zénon si travesta sotto mille nomi, nei quali stenta però a riconoscersi come rassomigliante, come se stesso. Piuttosto, lo specchio compare sotto forma di specchio infranto, ridotto in schegge ciascuna delle quali riflette un pezzo di volto, ma che – come si dice nella credenza popolare – porta sfortuna, getta il malocchio.

Fedora, l’attrice-mito protagonista del film omonimo di Billy Wilder, nel cui personaggio risuonano figure “vere” come quella di Greta Garbo e citazioni interne alla storia del cinema classico, come quella che si rifà alla protagonista di Viale del tramonto, si sottopone a ripetuti interventi chirurgici di ringiovanimento del volto, ma fa coprire tutti gli specchi della sua grande casa con delle lenzuola bianche come bianchi sono i suoi innumerevoli guanti, bende di quello che resta come segno certo (più certo dello specchio stesso) che resiste alla tecnica chirurgica, le mani, che mostrano sì, impietosamente i segni del tempo.

La modella dell’immagine pubblicitaria del profumo “Poison” guarda allo specchio il suo teschio, nella riedizione mediatica della Vanitas vanitatum, dove il volto si compone e si disfa in omaggio al nome proprio della griffe Dior, che compare in filigrana, e dello stesso nome proprio feticistico e ambiguo del profumo: Poison, veleno.

La proiezione oggi ha a che vedere con la generazione dell’immagine e dell’immaginario attraverso le loro tecniche riproducibili. Cinema, fotografia, video, pixel, fotogrammi, immagine tempo, immagine movimento, duplicazione, falsificazione: attraverso lo specchio delle tecnologie del visibile compare un mondo di visi luminosi. E non è l’anima che vi viene rubata, ma il linguaggio, in quel furto che sancisce la costruzione della mitologia contemporanea.

E’ solo un caso che sia un volto – nel senso di “rivolto” verso una direzione precisa –, quello del giovane “soldato negro” con lo sguardo alla bandiera francese sulla copertina di “Paris-Match”, a costituire il luogo comune più esemplare delle mitologie barthesiane?

Il volto del soldato negro, la “francità”, come la chiama Barthes (1957, p. 198). Questo volto, e il ruolo che esso riveste nella storia della fondazione della fenomenologia sociosemiotica del visivo, richiama alla mente un verso del Cigno di Baudelaire - “Je pense à la negresse” - nel quale la negresse è contemporaneamente la “negra” e la “negrezza”, oggetto (di desiderio del poeta?) e qualità, un pensiero selezionato attraverso il cromatismo di un volto che il poeta evoca, e che diviene “impropriamente” il nome proprio di lei (V. Spivak 1999, pp. 152-153). Può dirsi senza nome? Può dirsi interpellata in un segno particolare l’altra, la donna svuotata del suo nome, e allo stesso tempo enfatizzata fino a divenire la qualità stessa del suo “genere”: negresse?

Nominare può voler dire marcare un confine tra i corpi e tra i luoghi, svuotare e riconvertire l’altro a un senso deciso al di fuori, strappargli gli occhi e lacerargli il viso: ma i conti arrivano sempre quando è il momento di guardarlo in faccia. Per questo a volte è meglio oscurarla, la faccia.

Oscura, inquietante, grottesca nell’eccesso di simbolismi ovvi che si porta addosso, è l’immagine del volto dell’incappucciato di Abu Ghraib passata milioni di volte attraverso gli spazi virtuali che contano le pagine dell’orrore. E qui dico volutamente non “il volto”, ma l’immagine del volto, incappucciato due volte: una nel dress-code di una lugubre cerimonia, e un’altra nel suo nome abietto neanche-nome-proprio, ma oscena antonomasia: l’incappucciato di Abu Ghraib. Nome e luogo da cancellare, radere al suolo, o viceversa erigere a memento sepolcrale di un incessante e sempre vivo “Se questo è un uomo”.

E se questa fosse una donna? Questa è una donna, enfaticamente truccata sotto il cappuccio, donna ancora più donna perché incinta e velata è lì a farsi esplodere nel suo abito di tritolo nel teatro Dubrovka di Mosca. Il “make up” esprime allo stesso tempo il senso del “comporre” e quello del “farsi il trucco”; truccarsi per offrire il volto alla spoliazione, al denudamento totale, alla pornografia esplosiva della scarnificazione; comporre per scomporsi: il make up della terrorista scrive il suo nome attraverso le macerie di corpo che si lascia dietro. Scrive Lacan:



Se un uccello dipingesse, non lo farebbe forse lasciando cadere le sue piume, un serpente le sue squame, e un albero facendo piovere i suoi parassiti e le sue foglie? (Lacan 1973, pp. 115-116).



Sarebbe allora, quello di macerarsi e sfigurarsi, l’unico modo per “perdere il velo”? Chi si ricorda di quando e da chi le donne afghane sono state “liberate dal burqa”? E le ragazze francesi dal chador? Quale ansia di verità, di svelamento – alétheia – su quell’impresa! Un battesimo originario che ha avuto luogo nella forma dell’assunzione di una “missione di femminismo da parte dell’Occidente”. E’ questo il nome proprio che ne è risultato: donne-e-progresso, attraverso la rivelazione del volto. Rivelazione sacra al logos, sacra agli dei, sacra al miracolo di salvezza che il volto nasconde. Conosciamo la storia: se proprio il volto deve velarsi, che sia quello di un uomo insanguinato e crocifisso, e che il suo volto diventi effigie perpetua dell’uomo e della sua verità di carne sulla pellicola metonima di Veronica. A patto che il nome non sia pronunciato invano.

A volte il volto si copre per urlare invece il nome più di quanto gli sarebbe concesso: il passamontagna canonico di Marcos e il fazzoletto sul viso dei militanti dell’esercito zapatista esibiscono una retorica dell’enfasi nella sottrazione. Qui, ogni segno caratteristico al di fuori dell’indumento è cancellato. Ma “il volto ... si nasconde per mostrarsi”, e l’azzeramento dell’identità visiva riconoscibile del singolo produce una totalità che ambisce ad essere tutti e nessuno, in ogni parte del mondo. Così il volto, abietto come proprietà individuale, diviene il nome di una generalità, raccontando la genealogia della cancellazione di un popolo e promettendo la salvezza nella nominabilità transnazionale degli oppressi. Volto e nome territori d’utopia, non-luoghi nel locale/globale di trasfigurazioni annunciate. Il volto di nessuno, il nome di tutti.

Il topos della razionalità illuminista di Odisseo che si nomina “Nessuno” a Polifemo traballa nella linearità della sua dialettica: Horkheimer e Adorno hanno esplicitato il percorso attraverso cui l’eroe moderno Odisseo ha piegato la natura. Odisseo, dicono, ha giocato, giocandolo, sullo stesso terreno del Ciclope quando ha enunciato il suo nome “improprio” Nessuno quale segno d’indistinzione tra umano e animale. Ma cosa accade quando questo segno indistinto si sposta dal nome dell’eroe al volto del mostro, al volto-come-il-mostruoso? Quando l’indistinzione tra natura e cultura, o più precisamente tra umano e non-umano, è marcata dall’artificio tecnologico dell’immagine virtuale e seriale del volto costruito come quello del nemico che chiama terrore? Accade che il volto è prodotto come ciò che è stato già “rivolto”, o “rivoltato” - nell’inquadratura e nella costruzione stessa dell’immagine - come volto deforme e difforme. Scrive Judith Butler:



... nel caso di Bin Laden e Saddam Hussein l’umano in senso paradigmatico risiede al di là dell’inquadratura; il loro, infatti, è il volto umano nella sua deformità e nel suo eccesso, e non certo il volto nel quale identificarsi (Butler 2004, p. 172).



La cornice “corrotta” dell’immagine e della comunicazione restituisce il volto e il nome proprio a una abiezione senza ritorno chiamata “rappresentazione”. Non servono purificatrici ricerche di verità, non serve respingere l’immagine contaminata e degradata evocando una presunta verità anteriore del nome e del volto. Le pratiche testuali e politiche hanno da agire nelle pieghe, da accogliere trasfigurazioni e sfigurazioni come principi generatori di senso.

Come nel gioco tra il nome e la moneta di cui si parlava stamattina rievocando implicitamente il parallelo tra la moneta e la lingua, caro ai linguisti a cominciare da Saussure. Il valore del segno linguistico è tale all’interno di un sistema di corrispondenze ed opposizioni, proprio come quello di una moneta all’interno di un sistema di equivalenze. Si coniano le parole come le monete. Il significante è una moneta che passa di mano in mano, come vorrebbe Lacan. Ma la moneta, come la parola quando diviene “propria”, ha incisa su di sé l’effigie della testa del sovrano, e sul denaro, sonante, in carta o elettronico che sia, è apposta la firma del sovrano transnazionale di turno, il governatore della Banca. Il nome proprio e il volto scandiscono così l’eccezione e la regola del significante che inciampa nel suo percorso, proprio mentre la lingua si fonda nel battesimo (la coniazione) della parola e nella sanzione dell’identità. Un falsario abile sa come funziona la cosa quando si tratta di falsificare, abiettando, il nome proprio, sia questi un fuggiasco, un impostore, un esiliato, una spia in un romanzo di LeCarré, un hacker che clona una carta di credito, o un fabbricante di moda di marchi falsi, a seconda che la sua narrativa si collochi nella mitologia della modernità antieroica, in quella cibornautica, o in quella della riproduzione seriale neotecnologica del segno-merce.

Volto e nome si avvinghiano nella presa dello sguardo: lo sguardo prende, ma gli si può sfuggire, si possono confondere le acque, come nel sogno di Zhuang-Zi, che sogna un giorno di essere una farfalla, e al suo risveglio non si rende conto se sia stato lui a sognare la farfalla o la farfalla a sognare Zhuang Zi. Chi è sveglio? Chi sognava? Qual è il rapporto tra il soggetto e lo sguardo, tra l’immagine e l’identità, tra il sogno e la veglia, tra l’imperfetto, tempo del sogno, e il presente, tempo del risveglio, tra il nome che chiama per afferrare la farfalla sognata, e il nome come scia del volto che la farfalla lascia dietro di sé. “Volto come nome”, dove il “come” fa affiorare la sua differenza incommensurabile con la copula “è” – il volto non “è” un nome, è il volto “come” nome, il nome come volto:



Non lo dire il suo nome

che se vi cadi non potrai disfartene

e dopo appare acqua calma e satura

ridendo abbronzato come un viso

che si avvicini ai nostri amici vivi

...



Riferimenti bibliografici
Barthes, R., 1953 e 1972, Le degré zéro de l’écriture suivi de Nouveaux essais critiques, Paris, Seuil; trad. it., 1982, Il grado zero della scrittura seguito da Nuovi saggi critici, Torino, Einaudi.

Barthes, R., 1957, Mythologies, Paris, Seuil; trad. it., 1974, Miti d’oggi, Einaudi, Torino.

Barthes, R., 1970, L’empire des signes, Paris, Seuil; trad. it., 1984, L’impero dei segni, Torino, Einaudi.

Butler, J., 2004, Precarious Life, London-New York, Verso; trad. it., 2004, Vite precarie, Roma, Meltemi.

Chow, R., 2004, Il sogno di butterfly, Roma, Meltemi.

Colli, G., 1980, a cura, Eraclito, in La sapienza greca, vol. III, Milano, Adelphi.

Lacan, J., 1973, Le séminaire de Jacques Lacan. Livre XI. Les quatre concepts fondamentaux de la psychanalise, Paris, Seuil; trad. it., 1979, Il seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicanalisi,Torino, Einaudi.

Lévinas, E., 1976, Noms Propres, Montpellier, Fata Morgana; trad. it., 1984, Nomi propri, Casale Monferrato, Marietti.

Rhys, J., 1966, Wide Sargasso Sea, Harmondsworth, Penguin; trad. it., 1980, Il Grande Mare dei Sargassi, Milano, Adelphi.

Spivak, G. Chakravorty, A Critique of Postcolonial Reason, Cambridge-London, Harvard University Press, 1999; trad. it. in corso di A. D’Ottavio, Critica della ragione postcoloniale, a c. di P. Calefato, Roma, Meltemi.

Yourcenar, M., 1951, L’œuvre au noir, Paris, Gallimard; trad. it., 1989, L’opera al nero, in Opere. Romanzi e racconti, Milano, Bompiani, pp. 579-905.

http://xoomer.virgilio.it/pcalefato/nome_e_viso.htm

1:10 PM, marzo 31, 2009  
Blogger lophelia said...

grazie Jos, me lo stampo e lo leggo a casa con la giusta attenzione.

3:21 PM, marzo 31, 2009  
Blogger lophelia said...

l'ho letto, e dovessi dire di aver capito tutto direi una bugia.
Ho estrapolato i miei punti preferiti:

"Luogo particolare del corpo, il viso: luogo dello sguardo, luogo dell’esporsi e del ritrarsi, luogo del tempo che si scrive sugli angoli della pelle."
(citazione da tenere in mente per accompagnare una mostra di ritratti)

"Nominare può voler dire marcare un confine tra i corpi e tra i luoghi, svuotare e riconvertire l’altro a un senso deciso al di fuori, strappargli gli occhi e lacerargli il viso: ma i conti arrivano sempre quando è il momento di guardarlo in faccia. Per questo a volte è meglio oscurarla, la faccia."
(i conti tornano: nessuno vuol fare i conti con la faccia)

"Secondo un certo modo di guardare e di produrre le immagini, queste possono essere il prodotto di un’aggressione, o per meglio dire possono rappresentare ciò che “l’aggressione ha lasciato dietro di sé” (...) Lo shot, lo scatto o lo sparo dal mirino – sia questo quello di una pistola o di una macchina fotografica, sia il click del mouse o il ritmo cinematico di una catena di immagini mentali - in questo caso non farebbe altro che produrre una vittima passiva in mostra."
(questo è vero per un certo modo di fotografare, dal quale credo-spero di discostarmi)

6:03 PM, marzo 31, 2009  
Anonymous artemisia said...

Sulla citazione 1: I segni del tempo sul viso (e il terrore che la nostra società ne ha, in quanto memento mori) potrebbero spiegare la diffidenza verso il ritratto, che a differenza dell'immagine appunto ritrae la persona senza trucchi, senza photoshop. E anche, al contrario, la grande tradizione ritrattistica rinascimentale italiana.

Sulla 2: I conti tornano: il mondo del virtuale esclude il guardarsi in faccia e anche per questo - spesso- è falso.

Sulla 3: Tu, di questo modo, ne sei l'antitesi.

9:29 PM, marzo 31, 2009  
Blogger lophelia said...

arte: si torna al vecchio discorso, i segni del tempo che passa sono tabù perché alludono alla morte.
Questo però spiega solo uno degli aspetti della paura del Volto.
Secondo me c'è anche una paura del presente.

2. si guarda molto nel virtuale e nel reale, e l'apparenza è fondamentale. Molte in compenso sono le cose che non si vedono e non si vogliono vedere.

3. lei mi lusinga, e io mi lascio lusingare (questa allitterazione mi fa tornare in mente un certo Luscio Lanuvino, oscuro autore latino che al liceo ci figuravamo viscidissimo, proprio per queste consonanti scivolose)

11:15 PM, marzo 31, 2009  
Anonymous artemisia said...

Avevo rimosso Luscio Lanuvino!!!!

ahahahah

meno male che ci sei tu memoria storica...

5:00 PM, aprile 01, 2009  
Anonymous Anonimo said...

Fare un ritratto, cioè la rappresentazione di un volto di chi opera una pratica espressiva, è una delle cose più avvincenti e difficili insieme.
Io mi considero un discreto ritrattista; discreto, non per la tecnica. Posso disegnare e dipingere con tutte le tecniche facce riuscitissime, che lasciano il committente assai soddisfatto; però non si tratta di veri ritratti, quanto di bei disegni, giacchè il vero ritratto lo si può considerare di più la foto che mi viene data.
E discreto, perché, proprio per l’impossibilità di pormi davanti all’oggetto in questione dal vivo, mi manca l’occasione di poter sviluppare una disciplina (quasi nessuno ha più voglia di mettersi lì a farsi osservare per lungo tempo per farsi fare un ritratto).
E il ritratto non può essere fatto che dal vivo, non può essere che un indagine diretta, un osservazione approfondita di qualcosa che ci sta davanti. La fotografia in questo esprime un giusto adeguamento al senso del tempo della nostra epoca, anche se perfino con quella ( e sono sicuro che Lophelia lo sa) non c’è la garanzia della riuscita.
Per fare un ritratto una volta mi ci sono voluti mesi. Roba d’altri tempi.
Ma veniamo alla questione.

Qualche tempo fa (tre anni?), nella trasmissione “fuori orario” venne mandato in onda un documentario amatoriale girato all’inizio degli anni settanta, che riprendeva alcune lezioni di Derrida (Derridà? non ricordo in questo momento ) sul cinema. Nel vago ricordo delle circonvoluzioni labirintiche del nostro, mi rimase impresso il concetto di “viseità” del paesaggio. Non ricordo se poi Derrida abbia invertito il concetto in quello di ( questo è un neologismo che mi invento sulla base di una supposizione logica) paesaggità del viso.

Il paesaggio ci si rivela nel momento in cui, quando ci guardiamo attorno, l’ampiezza di fronte a noi appare con un volto.
Nella filogenesi dell’arte, il grande momento del paesaggio corrisponde a quello del ritratto, i quali a loro volta corrispondono al momento del grande romanzo dell’io; dell’indagine psicologica.
Quindi tutto questo entra in crisi con l’affermarsi definitivo della società della tecnica, della sua capacità indefinita di riproducibilità della cose e in sostanza della fine delle aure. (Il primo vero, duro colpo alla psicologia).

Quando Lophelia si domanda come mai ci sia una rimozione nei confronti del volto umano (fatto questo più vero da noi che nel mondo anglosassone , come giustamente lei ricorda), Jos interviene riportando interessanti, quanto emblematici frammenti, dal testo di un autrice che a sua volta raccoglie un assieme di autori appartenenti (salvo qualche caso..mi sembra) a quello che definirei . un pensiero regressivo, che considera in maniera assai problematica quello che possiamo definire: . l’adeguarsi della dotazione cosciente del nostro occhio all’autoapparire delle cose nella perlustrazione dei suoi significati.
La cultura cosiddetta alta, si turba di fronte all’evidenza (e il volto umano è una delle partecipazioni più eloquenti dell’evidenza), gioca di mimesi, se non di occultamento. Entra nella claustrofila dei significati con l’effetto di porsi aldifuori della decisione. Si è creata una vera e propria ideologia della mimesi, dove a farne le spese però non è la cultura accademica, bensì l’espressione, che trova nel mondo intellettuale una sorta di clima di sospetto (Perfino un grande accademico come Gombrich si rese conto di ciò, ribellandosi a questo stato di cose)

Tutto ciò,va detto, ha a che fare con la tecnica, che ovviamente la cultura non può non considerare, ma di fronte alla quale sembra si trovi costantemente spiazzata, in ritardo, in evidente affanno (questo si, linguistico) e nella più profonda incertezza.

Sembra che, postasi sul piano del confronto con la tecnica, non riesca a concepire che individualmente viviamo nella inevitabilità della ricognizione, e che questo si risolva espressivamente nella decisione (uno scatto, un disegno, un film).
La rappresentazione (come fenomeno generale) si svolge sul piano della tecnica, che è altro dal piano della personale volontà di espressione di un autore.

Viviamo in un epoca in cui non si sono mai viste tante facce, ma è nella pratica dell’espressione che la faccia (a dispetto della indefinita riproduzione delle facce e degli atteggiamenti ai quali quotidianamente assistiamo, secondo una logica tecnica che ha come suo principio l’inautenticità) riassume valore, cifra visuale della persona; con tutto ciò che questo comporta.

Per tornare ad una dimensione più prossima, è un lavoro che richiede passione e capacità di ascolto.
(Bellissima, ed emblematica, nell’ottica della spogliazione , quindi dell’ascolto,del far pulizia dai rumori di fondo, per poi lavorare sui volti, la performance Braeck Down)

Un saluto.

6:36 AM, aprile 02, 2009  
Blogger Fabio said...

E io che pensavo di lasciare commenti troppo lunghi.

Bella questa nuova Lophelia nel quadratino, con trattamento cosi' Richter! A proposito di volti che comunicano, anche con la forza dei particolari.

1:55 PM, aprile 02, 2009  
Anonymous Anonimo said...

Fabio, la domanda di Lophelia è una di quelle toste, se poi a qualcuno gli viene in mente di rispondere, in effetti sono guai...
Comunque hai ragione, bella la nuova immagine nel quadratino.
Lophelia, ( a proposito di volti) l'effigiata sei tu?

2:45 PM, aprile 02, 2009  
Blogger lophelia said...

Mauro: la mia domanda era forse impegnativa, ma devo dire che i commenti la superano!
In quello che dici ci sono spunti molto interessanti.
“quasi nessuno ha più voglia di mettersi lì a farsi osservare per lungo tempo per farsi fare un ritratto” è la conferma di quanto dice anche Landy su questo suo lavoro: racconta che i soggetti durante la seduta sperimentano un forte senso di vulnerabilità.
E pochi hanno voglia di sentirsi vulnerabili, esposti in balìa di qualcun altro per un tempo imprecisato (nella fotografia la tortura dura meno, eppure anche lì c’è chi soffre molto...). Perlomeno oggi: probabilmente qualche secolo fa i soggetti erano psicologicamente più resistenti!

“La fotografia in questo esprime un giusto adeguamento al senso del tempo della nostra epoca, anche se perfino con quella non c’è la garanzia della riuscita”. Assolutamente d’accordo. Mi piacerebbe anche sapere dal tuo punto di vista cosa caratterizza un ritratto “riuscito”, anche se qui si aprirebbe un altro universo.

Sulla “viseità” e “paesaggità” mi viene da smentire un famoso fotografo italiano che, intervistato proprio oggi su Repubblica, afferma che il ritratto in fotografia è più facile del paesaggio. Da un certo punto di vista sono la stessa cosa, da altri il paragone non sussiste.

Molto bella anche la tua critica a certa cultura alta e alla sua sospettosità - nonché al suo perdere terreno nei confronti della tecnica.
Per non rischiare meglio restare terra-terra, io almeno la penso così...

Nella foto di questo post non sono io, è una delle foto di prova per la serie dell’Altra Donna che poi ho voluto reinterpretare per questo argomento. Sì trascura il volto, ma quando è lui a sottrarsi allo sguardo, a farsi elusivo-sfuggente?
(ma basta con le domande, ora vedo di darmi pace – in realtà in questo momento sono io a eludere altre cose che dovrei fare, ad esempio gli aggiornamenti di capitale sociale)

Fabio: sapevo che mi avresti sgamato, l’influsso richteriano era troppo palese:)

3:35 PM, aprile 02, 2009  
Anonymous artemisia said...

@Fabio: I commenti questa primavera vanno lunghi ed ampi, le repliche invece corte, con le maniche a raglan.

:P

(commento scemo nel tentativo di eludere l'evidenza della mia totale ignoranza sull'argomento trattato)

5:19 PM, aprile 02, 2009  

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