Gli occhi, la bocca
Ma la cosa più interessante è quello che è successo dopo. Sembra che Landy dopo un po' abbia ricominciato prendendo in mano matita e carta bianca, e dopo aver disegnato un po' di erbette in stile inventario botanico sia passato a ritrarre da vicino i volti prima di parenti, poi di amici, artisti e altre persone. Lui e il soggetto, soli a pochi centimetri di distanza, nello studio completamente vuoto.
A me sembra che questo dica qualcosa sull'importanza del volto come oggetto di studio e di interesse. Ma pare che in Italia la pensino diversamente perché nelle arti contemporanee si rappresenta tutto tranne il volto (qui una National Portrait Gallery sarebbe un'eresia). C'è una sorta di rimozione, di fobia del guardare l'altro in faccia, del guardare se stessi troppo da vicino. Le tracce dell'identità si cercano ovunque (nei codici dell'abbigliamento, nell'ambiente di lavoro sia esso un ufficio o la cabina di un Tir) ma non nella faccia. Come se fosse ritenuto un compito privo di interesse, già assolto dai documenti di riconoscimento.
Per indagare l'uomo la maggior parte dei fotografi si concentra sulla dimensione di gruppo o di comunità, o magari sulla ripresa estemporanea in strada, fermandosi alla visione grandangolare.
Come se il volto non avesse niente da dire. E invece il volto è un luogo dove succedono un sacco di cose, lo sapevano bene registi come Dreyer, Bergman e Kieslowski (per non parlare di Ejsenstejn e dell'Occhio della Madre).
Etichette: arte contemporanea, fotografia, il volto